Hebron, dove l’apartheid per i palestinesi è quotidianità

IMG_6383Nella strada per Hebron, fiumi di macchine si riversano verso le diverse cittadine. Uno scenario familiare, la quotidianità frenetica tipica di un qualsiasi giorno lavorativo. C’è qualcosa di singolare però.Le auto che ci sfrecciano davanti non sono tutte uguali: macchine con le targhe verdi si differenziano da quelle con le targhe gialle. Le prime, dei palestinesi, possono viaggiare solo in alcune tratte prestabilite; le seconde, israeliane, hanno il diritto di percorrere tutte le strade.
Arrivando a Hebron,  questa discriminazione da brividi si concretizza.
La città è stupenda. Case di pietra bianca arroccate lungo le colline si aprono a valle per ospitare un enorme mercato colorato:  si inizia con i vestiti, le calze, le tute di pile esposte per l’arrivo della neve; si continua con i dolci tipici, i felafel, gli schawarma, la frutta bellissima elegantemente esposta con la verdura, il formaggio di capra; si finisce con i gioielli, i souvenir, gli oggetti tipici.

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Passeggiamo incantati. Mentre nuotiamo in questo mare variopinto, alzando lo sguardo, vediamo delle grate, e, al di là di esse, un soldato israeliano con il mitra in mano.Avrà 18anni massimo, e un sorriso di sfida irritante. Cerchiamo di non considerarlo, ma le grate, quelle impossibile non vederle. Ci viene detto che i palestinesi le hanno messe per evitare che gli piovesse addosso la spazzatura. Già. Coloni ed esercito si divertono sovente a lanciare dall’alto i rifiuti sul mercato. Sembra una gabbia. Un’ enorme gabbia che si allunga fino alle abitazioni.

Veniamo invitati ad entrare in una di esse. Tre bambini ci invitano a salire nella loro casa, dimezzata a causa degli espropri perpetrati dai coloni. Vivono in poche stanze, ammassati. Ci portano sul tetto, non sempre ci possono salire.Poco tempo fa, per esempio, dal balcone a fianco, una famiglia di coloni ha sparato sul loro balcone per forare la cisterna dell’acqua calda. Essere palestinese in Cisgiordania significa anche questo. Lasciamo i nostri piccoli amici, continuiamo il viaggio verso la cosiddetta città fantasma. E’ la parte di Hebron che anni fa e’ stata sgomberata ed espropriata a centinaia di famiglie palestinesi. Oggi alcuni stanno tornando ad abitarci, nella speranza di non essere costretti ad abbandonarle nuovamente.


Decidiamo di addentrarci in una di esse. Lo sfacelo e’ ovunque. Saliamo sul tetto per vedere lo stato delle altre abitazioni da fuori. Metà sono bruciate.
Mentre giriamo un video, alle nostre spalle compaiono prima due, poi quattro ragazzini con il mitra in mano. Sono soldati israeliani. Ci puntano il mitra, ma non sono li per noi. C’è un amico di Betlemme con noi. I palestinesi non possono andare dove vogliono. Si accertano che lui non sia l’ex proprietario della dimora, ci intimano di andarcene
Lui non può stare lì.
Un ritornello pesante come un macigno. Un ritornello che ci sentiamo ripetere altre volte durante l’esplorazione della città. Noi europei possiamo passare. Lui, palestinese, no.
Questa costrizione ci segue nei diversi check point che dobbiamo attraversare.
Ovunque i soldati controllano, scrutano, limitano.
Eppure e’ una città così bella.
Facciamo un po’ di shopping in barba a chi ci vorrebbe togliere l’allegria. Andiamo poi a mangiare in un posto che il nostro compagno di gita ci consiglia e con le pance piene di buon riso e pollo, ritorniamo comunque di buon umore all’Ibdaa center, tra targhe gialle e verdi.

 

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