CittàStudi spostata ad Expo? Un’idea di ricerca e università alla quale opporsi

downloadIl trasferimento dei dipartimenti scientifici di UniMi sui terreni di Expo, in fase di discussione da più di un anno ormai, non è esclusivamente una questione di edilizia, di delocalizzazione di spazi o una questione di perdita di identità di un quartiere, problemi che ovviamente esistono e sono pressanti. Riguarda un’idea di università e di ricerca scientifica da cui partono gli interventi amministrativi dell’ateneo e del governo. Riguarda gli obiettivi della ricerca scientifica e le modalità con cui si vuole raggiungerli.
Questo progetto e il conseguente abbandono del quartiere vanno riletti nel contesto della creazione di Human Technopole, cioè di un agglomerato di enti di ricerca di diversa natura (Istituto Italiano di Tecnologia, UniMi e aziende di caratura internazionale come Bayer, Rosche Novartis) che avrà come centro della sua attività lo studio delle “scienze della vita”. Lo stesso Rettore Vago si è prodigato nel presentare la vicinanza strategica tra questi enti e le sinergie che ne nasceranno come benefiche sia per aziende sia per l’università. Ovviamente né il Magnifico né Bergamaschi, direttore generale di UniMi, nelle pochissime occasioni in cui si sono degnati di affrontare il mondo universitario che amministrano, hanno mai considerato le conseguenze che questo trasferimento avrebbe sul mondo della ricerca nell’ateneo milanese.
Come studenti e ricercatori di UniMi troviamo significativo che le sfere amministrative non abbiano speso una parola in questa direzione. Ne prendiamo atto ma sentiamo comunque il bisogno che rinasca una riflessione allargata a tutti i diretti interessati, e non solo a loro, sulla natura della ricerca, sui suoi scopi e su chi ne debba trarre vantaggi. Proviamo quindi a dare qualche spunto di riflessione.

1) L’inclusione di UniMi nel progetto Human Technopole serve di base a intercettare una maggiore quantità di fondi privati per arginare l’inadeguatezza ormai endemica dei finanziamenti pubblici alla ricerca nel nostro paese. Di fatto la retorica che si è costruita attorno a HT è quella di un progetto che serve a rilanciare la ricerca italiana, con un polo tecnologico innovativo in grado di competere con il resto del mondo, identificando nel binomio università-aziende, il futuro della ricerca. Tuttavia, come mostrato da un’indagine di Roars (Return on academic research) questa relazione esiste già nel nostro paese: le università italiane raccolgono fondi privati in media per circa il 5% del loro bilancio, poco sotto a MIT, Berkley o Cambridge per citare alcune tra le più rinomate università al mondo. Quella tra università e aziende, non pensiamo sia di per sé una relazione sbagliata, i problemi sorgono quando sono i fondi investiti complessivamente nell’università ad essere pochi. Lo Stato italiano investe circa l’ 1.3% del PIL all’anno mentre la media dei fondi europei supera 1.5% , passando per Francia (1.7%) e Germania (2.2%), avendo aumentato questa quota nei primi anni della crisi. Che in Italia erano gli anni della contestazione ai decreti Tremonti (e alla riforma Gelmini) che hanno ridotto drasticamente i Fondi di Finanziamento Ordinario o i PRIN (progetti di ricerca di rilevante interesse nazionale). E in questo panorama, in cui ancora oggi si vivono gli effetti di questi tagli drammatici, il governo ha avuto la brillante idea di offrire all’IIT, 1.5 miliardi di euro in 10 anni (dopo avergliene assegnati altrettanti dal 2003 ad oggi), mentre per UniMi ha stanziato 130 milioni di euro, peraltro vincolandoli al trasferimento delle strutture sui terreni di Expo. E di fatto l’amministrazione si è piegata a questo ricatto. Negli ultimi dieci anni sono stati sottratti miliardi all’università pubblica, per investirli nella ricerca di fondazioni private (IIT), e ora altrettanti ne vengono investiti per la creazione di un unico polo connotato da una forte presenza di enti privati. La condizione di sottofinanziamento dell’università in Italia è strutturale, ed è per questo che il progetto di trasferimento contestualizzato a Human Technopole rischia di spostare le percentuali di investimenti nel nostro ateneo aumentando il finanziamento privato in proporzione a quello pubblico.

2) Di conseguenza, uno degli effetti principali sarà quello di ridurre la ricerca scientifica ad una corsa a risultati spendibili secondo le necessità di mercato. Cioè il rischio maggiore è che per cercare di intercettare una maggiore quantità di finanziamenti aziendali, le linee di ricerca vengano reindirizzate verso obiettivi dettati da interessi di grandi aziende, privando di fatto la produzione di saperi in università di quella autonomia che la dovrebbe contraddistinguere. E non è una questione ideologica, perché è ovvio che le sinergie decantate dal Rettore coincidano con l’ingresso di fondi privati nei bilanci di UniMi, che non sarà certo mosso da filantropia, ma cercherà un ritorno economico. E questo produrrà una disparità tra quelle linee di studio che riguardano tematiche immediatamente spendibili, e quelle di base. Che all’atto pratico significa che i gruppi di ricerca che si occupano di tematiche che non incontrano l’interesse di Bayer, Monsanto etc., si troveranno ad essere sottofinanziati, e quindi a non poter sviluppare programmi di ricerca a lungo termine, o troppo impegnativi per le loro forze. Non solo, l’indebitamento di UniMi necessario per realizzare il trasferimento, non potrà che aggravare questa situazione. In definitiva il rischio che segue dalla perdita di autonomia è la perdita di varietà nelle tematiche affrontate nell’ateneo, e un concentramento di risorse e competenze verso linee di ricerca che intercettino l’interesse delle grandi aziende. Questo vale sia per quanto riguarda quei dipartimenti che si occupano anche solo parzialmente delle “scienze della vita”, ma anche per tutti gli altri: fisici, matematici e informatici non otterranno verosimilmente alcun beneficio dalla vicinanza delle aziende farmaceutiche e dal trasferimento in sè.

17626527_1013666728767257_1639232967166811084_n3) Il ricatto con cui vengono assegnati i fondi all’ateneo, che sono una miseria se paragonati a quelli destinati all’intera operazione Human Technopole, non permette di indirizzarne nemmeno una parte a realizzare quello che chiamiamo diritto all’università. Cioè non permette in alcun modo di intervenire sulla necessità di realizzare una serie di misure volte a facilitare la vita universitaria di studenti e ricercatori, e la creazione di un’università come luogo aperto alla cittadinanza, che sia il centro della vita cittadina, che sia un luogo dove conoscenze tecnologiche e teoriche sono accessibili a tutti. Dei 130 mln stanziati per UniMi, non c’è un euro che viene investito nell’aumento delle borse di dottorato largamente insufficienti, nonostante l’adeguamento di quest’anno, al costo della vita milanese. Non viene aumentato il numero delle borse di dottorato, e nemmeno sarà possibile aumentare la durata/entità/numero degli assegni di ricerca. Non viene investito un euro per forme di welfare e di sostegno, come politiche abitative, o di sostegno alla mobilità, che sono necessarie in questo momento non tra dieci anni, a Rho, nella speranza che non ci siano ritardi, aumenti spropositati dei costi e che tutto fili per il verso giusto.
Allo stato attuale l’università vive in una condizione di finanziamento insufficiente e di totale mancanza di una visione a lungo termine come testimoniano i dati del Miur, che indicano chiaramente come la maggior parte dei ricercatori universitari lavori in condizioni di precarietà e sia quindi destinata per la maggior parte ad abbandonare il mondo accademico: circa 66.000 assunti con contratti a termine di vario tipo contro circa 50.000 assunti strutturati. La produzione di conoscenze è il larga parte portata avanti da persone senza possibilità concrete di vedere migliorare la propria condizione lavorativa nei prossimi anni. Discorso che si ripropone identico per gli attuali studenti che cercheranno di rimanere in università a lavorare.
E questa precarietà endemica gioca un ruolo sulle prospettive dei ricercatori dell’ateneo milanese così come in ogni altro ateneo italiano, perché la scelta e l’indirizzo delle tematiche studiate è vincolata alla possibilità di ottenere risultati “immediati e certi”, per poi poterli sfruttare in fretta pubblicando il maggior numero di articoli in vista del concorso successivo, per poter accedere al prossimo contratto a scadenza, fino ai limiti di rinnovo imposti per legge. L’alternativa è l’emigrazione o l’uscita dal mondo universitario.

È chiaro quindi come la scelta di trasferire UniMi a Rho sia una scelta strumentale: da un lato serve a giustificare la creazione di un polo di ricerca privato finanziato con fondi pubblici dando l’immagine del governo di turno come di quello che ha iniziato il processo di rilancio dell’università, e dall’altro è una scelta politica necessaria per salvare l’immaginario di Expo e ciò che resta della sua dimensione di grande evento in grado di rilanciare l’economia della città e del paese.
Il modello che si insegue con questo progetto è quindi quello di una ricerca orientata agli interessi di mercato. In cui si estremizza il rapporto già esistente tra ateneo e aziende a favore delle seconde, nascondendo le problematiche esistenti sotto un velo di sensazionalismo legato al rilancio della ricerca pubblica in Italia, che riparte con Human Technopole, ma che in realtà ha bisogno dell’ateneo, come ciliegina sulla torta, per giustificare un progetto che altrimenti risulterebbe solamente l’ennesimo flusso di fondi pubblici nelle tasche di aziende edili, o in questo caso di grandi aziende farmaceutiche.

Pensiamo invece che la ricerca debba essere considerata come un bene comune, senza interessi economici a vincolarla. Crediamo che la ricerca non si sostenga esclusivamente finanziando interventi strutturali, o creando laboratori all’avanguardia. Crediamo che non sia riducibile esclusivamente a finanziamenti per i progetti più meritevoli, come sono i Grants europei, mentre si lascia agonizzare la ricerca di base in una continua ricerca di fondi. La ricerca scientifica si sostiene invece realizzando il diritto all’università, dando prospettive stabili a ricercatori e studenti, investendo nell’aumento del numero degli assegni di ricerca e delle borse di dottorato, e della loro entità; sulla stabilizzazione dei contratti di lavoro precari esistenti e lanciando un piano di assunzione sostanzioso per il futuro. Non solo, si sostiene investendo in un welfare universitario inesistente in questo momento, che sia diffuso e di qualità oltre che inserito nel contesto urbano, attraverso politiche abitative mirate, creazione di spazi di socialità, di condivisione tra studenti ricercatori e cittadini, che liberino l’università dall’ottica aziendalistica con cui viene gestita sempre più spesso, e di cui questo progetto è un esempio evidente.

Tag:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *