Ridere! – su MDLSX dei Motus

MDLSX-©-Renato-Mangolin-036È raro avere l’occasione di rivedere uno spettacolo teatrale. Gli spettacoli, a differenza dei film, sono arte effimera, cangiante, che spesso passa dai teatri per non tornare. Ed effimeri sono, spesso, soprattutto gli spettacoli che non sono classici, che non mettono in scena testi canonici, ma che si muovono tra le maglie volubili della sperimentazione e della ricerca.

Anche per questo MDLSX dei Motus è uno spettacolo inusuale, eccentrico. Ho potuto, infatti, rivederlo dopo più di un anno a Milano, passando dalla stracolma sala di ZonaK ad una altrettanto piena dell’Elfo. Questo è stato possibile, credo, in virtù dello straordinario successo che ha avuto, attraversando, in due anni non solo l’Italia, ma anche l’Europa e il mondo. Come racconta Pietro Bianchi su dinamopress non sono stata l’unica a sentire la voglia di rivederlo, testimoniando così la natura già classica di questo spettacolo lisergico.

Rivedere qualcosa è sempre un gesto carico di timore, tra la voglia di rivivere emozioni e immagini, e la paura di scoprirsi deluse, di trovarsi di fronte a qualcosa che il ricordo aveva trasformato fino a renderlo irriconoscibile. Ecco, in questo caso non è stato così, ho ritrovato lo spettacolo dei Motus, la drammaturgia di Silvia Calderoni e Daniela Nicolò e la regia di quest’ultima di Enrico Casagrande, pieni di immutata forza e ricchezza. Un’ora e mezza di suoni, luci e parole, riempiti dal corpo asciutto di Silvia Calderoni sempre in movimento, riflessa costantemente da una telecamera che si punta in faccia e che ne proietta l’immagine e che fa il paio con i suoi filmini di famiglia che scorrono alle sue spalle.

E questo è il primo e forse il più potente segno di uno spettacolo che scompagina i registri e i canoni. Silvia Calderoni, infatti, ci offre alcuni suoi momenti intimi, di quel genere eminentemente privato che sono i filmini familiari, con la loro estetica naif e la dimensione quasi surreale di una totale assenza di trama. Queste immagini danno corpo, prima ancora che il corpo di Silvia entri in scena, alla storia di Cal/Calliope nato due volte, la prima come femmina e la seconda come maschio. Ed è un gesto di coraggio che espone l’interno della casa ad un pubblico che, se non ha letto il romanzo di Eugenides, fatica a capire se sta assistendo ad un’autobiografia o a un racconto, come si domandavano sussurrando i miei vicini di posto. Questo mescolare realtà e finzione, narrazione immaginaria e immagini reali, ci interroga su cosa sia e come si costruiscano le nostre identità e sul loro costante gioco di ridefinizione, tra autenticità e travestimenti in cui è impossibile stabilire un’origine.

Cal ce lo racconta: cresciuto come una femmina, per quanto atipica e che si preoccupa del mancato arrivo delle mestruazioni, che conta i peli e osserva un seno che non cresce – ma quante di noi si sono guardate nello stesso modo e hanno affrontato gli sguardi altrui con lo stesso timore – a 15 anni scopre di essere ermafrodito. Cal, infatti, ha i cromosomi xy, ma essendo affetto da ipospadia non aveva un pene degno di questo nome ed è stato ricondotto a femmina perché, come dice il suo medico, “i genitori non possono sopportare di avere un figlio dal sesso ambiguo”. E allora, sull’altare della normalità si può, si deve anzi, sacrificare anche il piacere sessuale, secondario rispetto alla possibilità di “passare davvero per una donna”. Le scene in cui Cal si sottopone ai controlli medici e alle fotografie che li testimoniano sono tra le più forti dello spettacolo, cariche di una violenza che ancora si abbatte sui corpi intersex. Ma oltre alla violenza medica Cal affronta anche quella di una cultura binaria quando, risalendo il dizionario, lega “ipospadia” a “mostro”, una parola che continua a risuonargli nelle orecchie fino a che non decide di essere maschio.

L’esposizione del corpo di Cal nelle fotografie mediche contrasta con le immagini affettuose dei filmini e col corpo esposto di Silvia Calderoni, di cui vediamo seni, cosce, natiche, vulva, quasi a trasformare la staticità violenta del manuale di medicina in una forza dinamica, quasi frenetica, presente. Un corpo che ci mostra, in scena, cosa possono fare i corpi: sono una situazione, per dirla con Simone de Beauvoir, dentro la quale ci troviamo, a cui spesso veniamo schiacciate, ma che nello stesso tempo, specularmente, ci offre gli strumenti per resistere e goderne. I capelli di Cal che cadono sotto il colpi del barbiere gli permettono di non essere più se stesso, di non riconoscersi e nello stesso tempo di scoprirsi nei proprio panni, dove, come dice alla fine, è sempre stato: “sono sempre stata così”. Un sempre, questo, che non fissa un’identità immutabile, ma che apre alla possibilità di scoprirsi da sempre così ad un certo punto del proprio percorso, descrive un sempre in movimento che scompagina quelle identità che si vorrebbero eterne. Sono da sempre così sembra voler dire, allora, che si è sempre ambigui, sempre pronte ad inciampare nelle maglie del binarismo e a trovare, in quella perdita di equilibrio, un passo di danza.

Proprio su un ballo, tra Silvia e suo padre, si conclude lo spettacolo, con quella che è la maggiore differenza rispetto al romanzo. Nel testo di Eugenides, infatti, Cal torna a casa in tempo solo per il funerale del padre, che invece accoglie il Cal dei Motus sulla porta: una nota di ottimismo che mette in scena un’accoglienza critica, dubbiosa, ma che si scioglie nel ballo, con un padre che impara a danzare sui passi scanzonati della figlia, quasi ad aprirci ad un futuro di possibilità scoordinate e sghembe, ma felici. E questa immagine sembra contraddire il “non c’è niente da ridere”, incisivo, che Silvia Calderoni pronuncia dopo aver letto qualche passo di Terrore anale di Paul B. Preciado e che zittisce le risatine del pubblico aggiungendo “noi siamo così”. E in effetti il paradosso consiste proprio nel fatto che non ci sia niente da ridere mentre noi ridiamo lo stesso, mentre inventiamo nuovi passi di danza e nuove relazioni per abitare il mondo sconvolgendolo.

Per tutto questo vedere – rivedere – questo spettacolo alla vigilia del pride milanese è stato emozionante. Innanzitutto per la capacità di mettere al centro della scena un corpo anche in modo osceno, esplicito, ricordandoci che quando parliamo di genere parliamo, prima che di qualsiasi altra cosa, di questo: dei corpi e della loro possibilità di provare piacere, godere, soffrire, muoversi. E poi per la sinergia tra teoria e racconto, tra filosofia e vite: esistono teorie che fanno cose, che trasformano il mondo e quella queer – quella frocia, per essere più chiare – lo fa perché parte dalle vite di coloro che la pensano e questo spettacolo la restituisce ad alcune di queste vite come uno strumento potente per raccontarsi e allo stesso tempo come un manifesto politico sovversivo. Come cantano gli Smiths sugli applausi fragorosi del finale questo è un “good time for a change” e “let us get want we want”, sapendo che questo qualcosa che vogliamo dobbiamo costruirlo insieme, a partire dai nostri corpi e dal racconto di quelli altrui, sapendo che non c’è niente da ridere per ridere moltissimo.

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